Primo contatto

Da quando la mia famiglia era tornata a Torino dopo lo sfollamento a San Giorgio Canavese, ancor prima che la guerra fosse proprio del tutto finita, la mia vita si svolgeva secondo un programma molto semplice: tutte le mattine, camminata da via Baveno, dove abitavamo, a corso Tassoni, dove c’era il liceo Cavour. Ritorno a casa dopo la fine delle lezioni, alle 13. Pomeriggio speso a studiare le materie per i giorni seguenti, comporre i temi di italiano, scrivere gli esercizi di matematica, francese, latino e greco da svolgere a casa. Tutto lì.

La domenica il tempo passava a casa con gli stessi noiosi impegni scolastici di tutti i pomeriggi precedenti, ma nelle feste di precetto il programma prevedeva un intervallo in più, la messa al mattino. Nei primi tempi andavo a messa un po’ sul tardi, concedendomi quello che mi pareva un meritato riposo dopo i rigidi orari dei giorni feriali. Ma poi, avendo percepito che la giovane e bella panettiera di via Salabertano sempre frequentava la messa delle sei (evidentemente a causa degli orari del padre fornaio) cominciai anch’io ad andare a quella funzione molto mattutina. Il celebrante era sempre il parroco in persona, don Plassa, ed io che a San Giorgio avevo imparato a servir messa in modo impeccabile, mi offrii come altar boy. Fui accolto senza obiezioni, ed affiancai nel servizio un uomo assai anziano, simpatico, taciturno, sempre vestito di nero, che don Plassa chiamava Zio Marco ed era evidentemente da sempre l’uomo che serviva la messa delle sei.

Il clou di tutta la mia settimanale manifestazione di fervore religioso avveniva al momento della comunione: la bella ragazza con un velo nero sui capelli, come si usava allora, arrivava ad inginocchiarsi alla balaustra accanto a poche altre donne (la chiesa era sempre quasi deserta, così presto al mattino) ed io arrivavo lì dall’altare a reggere, sotto il dolce viso serio e raccolto di lei, quel piatto ovale di latta dorata - che appresi più tardi chiamarsi patèna - accanto a don Plassa che brandiva l’ostia e recitava le parole del rito. Il magico momento della vicinanza fisica durava poco più di un secondo, mentre lei riceveva il sacramento tenendo gli occhi chiusi. E poi tutto finito, fino alla identica replica della prossima domenica.

II

Scoperta dell’ambiente

 Un mattino di una di quelle domeniche, dopo la messa delle sei, don Plassa, mentre si toglieva i paramenti sacri che indossava sopra la lunga tonaca nera, come si usava allora, fu mosso dalla curiosità di conoscermi meglio, e si informò della mia famiglia, dove abitavamo eccetera. Saputo che mia madre era una maestra della vicina scuola Duca d’Aosta, egli mi disse che la conosceva di vista e aveva sentito dire dalle madri delle sue allieve che era una persona severa ma buona, di quelle che prendono l’insegnamento come una missione e si prodigano molto (a quei tempi in verità questa era la norma delle maestre nella quasi totalità dei casi da me conosciuti). Don Plassa aggiunse: “Lei è di ottima famiglia e si vede subito, anche, che lei è una persona ammodo. (Il brav’uomo mai avrebbe immaginato quanto le apparenze fossero diverse dalla realtà!)... Perché non viene alla nostra Associazione Cattolica? Ci sono bravi ragazzi simpatici, seguiti dal nostro viceparroco appena arrivato qui, don Enriore. Adunanza tutti i sabati sera, alle 9. Io fossi in lei proverei una volta a venire un sabato per incontrarli tutti. Magari nel gruppo trova qualche amico”.

 Mia madre non fece grosse obiezioni alla mia proposta di andare in parrocchia al sabato sera e dopo avermi chiesto di promettere che questo “svago” non avrebbe influito negativamente sui miei impegni di studio, accettò.

E così vi conobbi tutti, cari amici che ora ricordo con affetto e nostalgia, quelli di voi che ancora ho la fortuna di rivedere alla riunione annuale dell’8 dicembre, e quelli che sono passati da tanti anni al di là della nebbia fitta sull’Acheronte, indimenticabili ragazzi allegri, generosi, spensierati... ricordate la nostra canzone?

Viva la nostra Cricca

banda dell’allegria

Viva le nostre gite

senza malinconia

su e giù per le montagne...

un po’ di qua un po’ di là

alla fine al Cervin siamo arriva’...

senza fia’ !

Le Adunanze del sabato sera avvenivano in una stanza nel seminterrato della casa parrocchiale (quel  poco che ne era rimasto dopo i bombardamenti) ed erano precedute e seguite da un chiasso di livello altissimo, tutti parlavano - urlavano - a proposito della partita della Juve, di Coppi e Bartali al Giro d’Italia... ad un certo momento don Enriore, chiamato da tutti “Vice” (appellativo che gli rimase anche dopo che diventò Parroco e più tardi Monsignore) superava il clamore intorno intonando a gran voce un’Ave Maria, segnale convenuto di inizio dell’Adunanza che poi egli portava avanti nel raccomandare i valori della Preghiera e del Sacrificio per migliorare la nostra vita interiore. Subito dopo, nel quasi silenzio che seguiva, Celestino Gaidano, presidente, un tipo alto e magro, bonario, bonariamente criticato da tutti per la sua irresistibile vocazione a fare discorsi, teneva il suo sermone settimanale  concernente i programmi per le future attività dell’Associazione Aldo Marcozzi (questo era il nome ufficiale della nostra Cricca), spesso interrotto da amichevoli esortazioni alla brevità... “va bene, Cele, dàgli un taglio, abbiamo capito!” .

Veniva poi accanto al tavolo di fronte alle nostre sedie quello che nelle sezioni del Partito Comunista di allora sarebbe stato il “commissario politico” - e invece nell’Azione Cattolica era chiamato Delegato Juniores (“Ju” era il nome ufficiale di noialtri ragazzi della cricca, anzi della ciurma, perché eravamo “i giovani” dell’Associazione – Cele e Toro che affiancavano il Vice nel ruolo di educatori erano i seniores): il nostro delegato era Carlo Raineri, chiamato da tutti Toro Seduto dopo una sua indimenticata recita di anni prima, nel teatrino parrocchiale, appunto in quel ruolo di Capo Sioux; ed egli ci parlava un po’ dell’ultimo film da noi visto con lui recentemente, sollecitando nostri commenti e osservazioni... che egli poi concludeva traendone edificanti motivi di meditazione.

Subito dopo le ultime parole di Toro (ritenute da tutti un po’ barbose, anche se nessuno si sognò mai di dirglielo) esplodeva nella stanzetta tutto il chiasso represso dal primo momento dell’Adunanza, tutti urlavano per farsi sentire, parlando delle ultime gite e di quelle future... come vi ricordo quasi tutti, cari amici della ciurma sempre allegri, quanto ci piaceva ridere insieme dei ricordi comuni e pregustare le prossime occasioni di spasso.

Sarebbe stato impossibile, nell’allegra cagnara, cercaretraccia delle elette parole che il Vice, Cele e Toro ci ammannivano ogni sabato sera. Ma ora capisco, dopo tanti anni, capisco sempre meglio che i loro discorsi costituivano una sorta di inespresso ma reale fondamento della nostra vita comune: non ne parlavamo mai, tra di noi, ma era implicito che in quelle Adunanze ci venivano dette cose vere e giuste benché a volte le trovassimo un po’ noiose, tutti consideravamo l’Insegnamento Cristiano, che ci veniva propinato, una cosa ovvia e fuori discussione, anche se mai trovammo l’occasione di ringraziare i nostri seniores per questa loro missione tra noi.

A me piacerebbe ringraziarli ora, anche se il Vice e Toro sono andati da tanto tempo e soltanto Cele è rimasto ancora qui: è sempre lui, alto e magro, un po’ più curvo e forse duro d’orecchi, ma sorride sempre bonario come allora e mi fa moltissimo piacere stringergli ancora la mano senza dir niente, come facevamo sessant’anni fa. Non c’è bisogno di parole, davvero, tra noi. Io amo il vecchio Cele che a Margone con Gino Raveri sopportò i rastrellamenti dei Tedeschi alternati ai comizi dei Partigiani sovietici... e  qui in via Valentino Carrera sopportava gli amici irriverenti della ciurma, con Eugenio Borgo che sull’aria del Nabucco cantava a squarciagola “Celestino, sì bello e perduto...”  Spero di salutarti ancora in silenzio per tanti anni, Cele.

E quanto vorrei ancora vederti qui con noi, Toro! da giovani ci sembravi un po’ troppo serio e concettoso, soltanto più tardi ho capito che tipo eri davvero, uno di quelli rari, intellettualmente onesti, incapaci di compromessi e di comodi ammiccamenti: e ricordo con tenerezza quando accettasti di ricevere a casa tua le lettere che nascostamente mi scriveva da Linz an der Donau una ragazza dagli occhi azzurri che poi diventò mia moglie...  vorrei ora far conoscere a te e alla tua dolce generosa Piera i sette nipotini di cui siamo nonni...  E’ stato proprio un privilegio, incontrare amici così.

Del Vice si potrebbero scrivere pagine e pagine: ma credo che sia stato già detto tutto in occasione del grande funerale, a cui non partecipai perché come mi capitava spesso ero a casa del diavolo a migliaia di chilometri da Torino: il Monsignore che fu il nostro Vice era diventato un personaggio

importante fra il clero torinese e credo che di lui sia stato detto molto da persone ben più qualificate di me.  Ma io conservo un ricordo molto personale, molto bello: qualche anno dopo il mio arrivo tra la Ciurma, quando già ero uno studente gloriosamente fuori corso al Poli, il nostro Vice cominciò ad occuparsi di un’attività ben più vasta della nostra Cricca di ragazzi, credo che si chiamasse “Torino Chiese” e lui fu incaricato dal vescovo di visitare vari parroci di campagna per informarli in dettaglio dell’iniziativa.  Così un giorno in cui nevicava mi telefonò: “Scara, hai mica voglia di portarmi a fare un giro fuori città?” (Tutti mi han sempre chiamato Scara, perché il mio cognome è troppo lungo).

Blimey! Questa sì è una proposta! Mio padre aveva comprato in quegli anni una vecchia Lancia Augusta di terza o quarta mano ed io sono sempre stato un fanatico della guida. “Lei mi invita a nozze, Vice! A che ora partiamo?”

Così percorremmo un bel po’ di chilometri su strade di campagna innevate come Dio comanda, quella vettura non aveva riscaldamento ed io non sentivo i pedali, per il gran freddo, un bel po’ di volte rischiammo di rovesciarci in uno di quei fossi che la neve nascondeva... mi divertii moltissimo. Il Vice era serio e pensieroso, forse recitava fra sé le preghiere a San Cristoforo per i viaggiatori in pericolo. A sera tornammo in città, sulle strade in parte sgombrate dagli spazzaneve. “Bravo Scara” mi disse il Vice, infine. Io mi sentivo felice, del tutto felice. Ed ora che ho ottant’anni suonati vorrei ancora rivivere con lui quel momento e sentirgli ancora dire Bravo Scara, come allora.

III

La Ciurma

La chiesa della Madonna della Divina Provvidenza ha tre navate, e due ali sui fianchi dell’abside. Nella navata di destra c’è la tomba di don Plassa, fondatore e primo parroco. Coloro che frequentano il luogo da pochi anni mai potrebbero immaginare come era questa chiesa nel 1944-45: c’era una sola navata, simile ad un alto capannone con gli squallidi muri laterali ancora affumicati dal fuoco della bomba d’aereo che ne aveva demolito il tetto.  L’affresco in alto sull’abside era già quello che si vede ora, ma le colonne a lato dell’altare che adesso delimitano le due ali della pianta a croce latina erano vicinissime al muro del capannone  e noialtri della ciurma assistevamo alla messa in quello stretto spazio, sbirciando il popolo dei fedeli (quasi tutte donne) nei banchi che allineati su due lunghe file guardavano verso l’altare. Tra di esse c’erano sicuramente le nostre madri e sorelle quindi... fermi e composti, ragazzi! Appena finita la funzione, tutti giù a rotta di collo per la scaletta di legno che scendeva dalla sacrestia al cortile e subito eccoci a prendere a calci il pallone.

Mai potreste immaginare, voi che allora non c’eravate, qual ciurma straordinaria era la nostra! La sacrestia era collegata alla casa parrocchiale da un ponticello di legno, che fu teatro di una delle più spesso celebrate imprese della ciurma: non ricordo come mai una sera, dopo l’Adunanza, decidemmo così d’un tratto di versare acqua sul coro – un gruppo di ragazze che, dirette dal maestro Bello, provavano al sabato i canti per le funzioni della domenica. Le avevamo udite scalpitare sull’impiantito di legno avviate verso la chiesa e pensammo di prepararci per tempo al loro ritorno, acquattati sulle scale del campanile, dopo aver cercato dei contenitori di fortuna per l’acqua.  Io trovai soltanto un fanale di bicicletta, poco adatto a contenere una quantità ragionevole di liquido, così rinunciai a partecipare e mi preparai a godermi la scena da spettatore. Ecco di nuovo lo scalpiccio delle canore vittime ignare, ecco la loro andatura d’un tratto trasformarsi in fuga al galoppo sfrenato fra strilli acutissimi. Non ricordo con precisione ma sembra che uno dei nostri, dopo aver buttato l’acqua lasciasse volar giù anche il secchiello!!

Il Vice, il quale stava conversando con Cele e Gino Raveri (che erano all’oscuro del criminoso disegno) e con me (che facevo l’indiano fingendo grande sorpresa) comprese al volo la situazione e, munitosi di un asse a mo’ di randello, prese a legnate tutti quelli che un dopo l’altro riemergevano dalla porta del campanile. Fu davvero una sera da ricordare.

Genesio Viano mi disse più tardi che, se avessi trovato anch’io un acconcio recipiente e avessi partecipato al lancio, il Vice - che fino allora mi considerava un ragazzo serio e compassato, tutto casa chiesa e studio... proprio come quel brav’uomo di don Plassa, che mi aveva arruolato tra la ciurma un mattino dopo la messa delle sei, giacché gli  ero sembrato  “un giovane ammodo” - il Vice poveretto sarebbe stato talmente sconvolto da un tale shock psico-traumatico che si sarebbe messo anche lui a buttar giù acqua dal campanile.

Ebbene sì, eravamo una banda di monelli molto affiatati, ci piaceva ridere e ricordare le nostre imprese ridendo, quella volta che si fece una gita nel Vercellese diretti verso chissà quale santuario tra le risaie e Alfio Brusa raccolse dalla strada un chiodo che gli aveva forato il copertone ed egli dovette smontare la ruota e la catena avvolto (lui con noi, che ci eravamo fermati intorno)  da una nuvola di zanzare fameliche e aggressive come piraña... tutti ci prendevamo a ceffoni nel tentativo di schiacciare, o almeno scacciare, i terribili insetti e infine eravamo tutti neri a causa dell’olio lubrificante della catena.

Naturalmente la bici era il nostro solo mezzo di trasporto (soltanto più tardi Michelino Berardo ebbe a sfoggiare una vetusta balilla a tre marce, oggetto di generale muta ammirazione) tutte le nostre gite in montagna avvenivano pedalando alla grande. Organizzavamo anche corse campestri e su strada, che erano sempre vinte da Gianfranco Meschini, il quale allora aveva i capelli rossi e correva davvero come un treno, con le sue ruote a copertone-e-camerad’aria mentre i suoi snob-competitori provenienti da lontane parrocchie ostentavano le “tubolari” incrociate sulle spalle: tutto inutile, vinceva sempre lui!

Non tutti avevano la maturità di Gianfranco, che pur essendo capace di andare velocissimo usava molta prudenza.  Uno dei nostri, invece... eravamo sul corso Francia circa in piazza Bernini, davanti alla clinica Albert e c’era un gruppo di persone che attraversava  lì davanti, padre madre e marmocchio, tutti noi andavamo forte ma tutti schivammo in tempo l’infelice famigliola... tutti salvo l’ultimo della nostra fila, il quale vide troppo tardi l’ostacolo, frenò e sbandò troppo tardi, e finì  proprio addosso al ragazzino. Noialtri udimmo lo stridere della frenata, gli strilli della madre e le urla furiose del genitore inviperito, frenammo anche noi e tornammo indietro a constatare il danno.

C’era con noi anche il Vice, forse perché andavamo alla Consolata, chi se ne ricorda? il quale Vice teneva la lunga tonaca nera alzata e arrotolata intorno alla vita per pedalare liberamente e così sembrava davvero un bel po’ al Fernandel di Don Camillo (anche il Vice non aveva altro veicolo che la bici, a quel tempo - e perciò mi aveva chiesto di portarlo sulla vecchia Augusta di mio padre, quel giorno della tormenta di neve; soltanto più tardi i preti della nostra Parrocchia arrivarono a disporre di un’utilitaria).

Per fortuna il ragazzino era incolume, nemmeno un’ecchimosi (ho sentito dire più tardi che esistono angeli custodi specialisti nel proteggere bambini innocenti e adulti stupidoni), ma il genitore continuava a dare in escandescenze, e aumentò molto il volume quando percepì che colui che sembrava il capo del gruppo, con quel grande sedere sul piccolo sellino da corsa, era un prete.  Eravamo tutti fermi in cerchio sul controviale del corso Francia (che allora non era percorso da un traffico paragonabile a quello di oggigiorno) e sembrava una tragedia di Euripide recitata lì all’aperto, con il Vice che chiedeva scusa per l’involontaria malefatta di uno dei ragazzi, e il genitore furibondo e noialtri in cerchio intorno, a recitare muti la parte del coro nella tragedia. Sembrava che la scena non dovesse finire mai, ma poi la madre mormorò qualcosa all’orecchio dell’energumeno e questi spinse energicamente il Vice per le spalle, urlando: “ E allora vada a pregare, porca miseria, vada a pregare!”.  E tutto finì lì.

Dove siete ora, vecchi amici della ciurma! Di alcuni ricordo la faccia e il nome, Villata faceva il tramviere ed era il factotum per aggiustare gli impianti rotti della casa parrocchiale, Roberto Albrile aveva una voce da tenore e spesso ci deliziava con le sue non richieste esibizioni, c’era un gruppo di coetanei del 1930, Arata, Meschini, Bertino, Orecchia, Beppe Gaidano, Berardo... chi altri? Mi avevano cooptato nel loro gruppo, malgrado io fossi un vecchione del 1929, con Rocco Sansone, che era del ‘28. E poi c’era un gruppo di più giovani, coetanei di mio fratello del 1936 o giù di lì, Cossa, Levetto, Tenti, Bertolino, Mario Gaidano, Motto, alcuni altri li riconosco ancor ora quando li incontro ma il nome l’ho perso fra i rottami dei miei neuroni e non riesco a richiamarlo alla mente. Alcuni di loro sono diventati personaggi importanti, Berardo era notissimo fra gli architetti di Torino e scoprii una volta, quando una mia figlia vinse una borsa di studio alla facoltà di medicina, che fu lui a consegnarle l’attestato in veste di presidente del Lions Club; e Tenti si fece conoscere in tutto il mondo con i suoi famosi trekking (io ero il rappresentate generale della Fiat in Cina quando preparammo un’accoglienza memorabile a Pechino per lui e per la colonna di camion Iveco che con lui aveva percorso fin lì la Strada della Seta di Marco Polo).

Tutti quelli che come me sono arrivati a superare gli ottant’anni ricordano con piacere i compagni di gioventù, ma io sono certo che ben pochi hanno avuto la fortuna di esser parte di una ciurma come la nostra. Eravate davvero fantastici, amici miei. E’ stato un grande regalo essere accolto nella vostra cricca, banda dell’allegria!

IV

Buone azioni

 Il motto della nostra cricca era “Preghiera, azione e sacrificio”. Nelle Adunanze del sabato sera in nostri seniores ne parlavano sempre... anche se poi la risposta della ciurma non si poteva definire entusiastica: almeno non pubblicamente. Ascoltavamo il sermone in silenzio, e poi ce ne andavamo in silenzio (per pochi secondi). E’ possibile che ognuno dei presenti, in privato, poi rimuginasse un po’ delle esortazioni ascoltate, e qualche volta si sforzasse, nell’intimo, di pregare un po’, e anche di sacrificare un po’ del proprio egoismo “per amore di Nostro Signore e del prossimo” . Certo. Hmm! Chi lo sa?

Qualcuno sì, lo vedevamo tutti, che senza dichiarazioni altisonanti metteva davvero in pratica il Motto: Beppe Gaidano, per esempio, un giovanotto in gamba, bravo nel suo lavoro (io che non sono mai stato bravo al tecnigrafo sfruttai vergognosamente la sua capacità di disegnare per le mie esercitazioni di Costruzione di Macchine), bravo in tutti gli sport, simpatico, spiritoso e saggio... egli trascorse moltissimi giorni festivi nel cortile dell’Oratorio parrocchiale per far giocare ragazzi del rione che senza di lui sarebbero andati a frequentare chissà chi, in questo mondo di perversioni in agguato. Il bravo Beppe, insieme a qualcun altro di cui ora non ricordo il nome, sacrificò molto del suo tempo libero a questi ragazzini sconosciuti, mentre avrebbe potuto (e voluto) andare a spasso con la sua ragazza alla domenica pomeriggio.  

Sì, qualche esempio lo abbiamo visto tutti.  Nella maggioranza dei casi comunque la risposta all’invito rimaneva avvolta molto strettamente nella privacy di ognuno, ognuno poteva essere nell’intimo un santo instancabile o un pelandrone, il che è molto comodo.

E poi, abbiamo sentito dire più volte che esiste una cosa detta Vocazione: che è una Chiamata, qualcuno la sente, la segue, e diventa una forza che trascina gli altri, un carismatico benefattore, un maestro, chi sa.  Qualcuno invece non sente niente, non è chiamato a diventare un Faro nel mondo e rimane sempre nel tinello di casa sua. Magari la sua chiamata è proprio questa, lavorare tutta la vita in tinello, e se lo fa volentieri e offre queste sue monotone giornate a Nostro Signore,  non è da Lui meno amato per questo. Anzi.

Ora vi confesserò che a un certo momento io ho avuto una Chiamata.

 Cele, il vecchio Cele una sera mi disse: “Sai che cos’è la Conferenza di San Vincenzo?”  “Be’, sì. Anzi no” risposi.  Avevo visto qualche volta un gruppo di uomini che reggevano una scatola di cartone davanti al portone della chiesa. Raccoglievano soldi per i poveri della parrocchia. Non mi sembravano persone molto brillanti, così dimessi, timidi... e  noi della ciurma li chiamavamo i Vincenzi con una punta di irrisione per quel nome ridicolo. Ma io fui folgorato da un’idea (non molto altruistica, in verità, come vi spiegherò tra un momento) e subito dissi a Cele: “Tu sei del loro gruppo? Mi stai invitando a partecipare?”. “Ebbene sì - disse lui - ci riuniamo al lunedì sera, se una volta vuoi venire a vedere...”

Ecco la Chiamata. Certo che ci andrò, uno dei prossimi lunedì, mi dissi. Ma ora che sono trascorsi tanti decenni vi racconterò tutta la verità. Io non mi vedevo affatto in atteggiamento timido e dimesso a stare davanti alla chiesa con la scatola di cartone! Non provavo nessuna vocazione per questo. Io avevo sentito, attraverso casuali discorsi di mia sorella con mia madre, che la bella panettiera di via Salbertrand - che si chiamava via Salabertano in quei tempi – era una persona buona e perfino apparteneva al gruppo delle Dame di Carità.  Ooooh! Altro che le fugaci visioni alla messa delle 6 al mattino presto!  Magari la potrei incontrare a qualche riunione della Società di San Vincenzo, magari riuscirei perfino a scambiare qualche parola, magari alla lunga potremmo diventare amici...

Il lunedì convenuto Cele mi presentò ai Confratelli (come si chiamavano i soci della Società) ed essi - in gran parte uomini anziani, gli unici  “giovani” erano Celestino Gaidano ed Erasmo Morselli, che erano comunque almeno cinque o sei anni più vecchi di me - essi mi accolsero con calore. Il presidente del gruppo locale, il ragionier Varesio, capelli grigi e occhialetti, si disse felice della mia decisione di unirmi agli amici lì intorno, c’è molto da fare, la messe è molta e gli operai sono pochi, eccetera.  Io mi guardai intorno deluso: compresi subito che non avrei mai incontrato quella bella e dolce signorina in quel gruppo.

A quei tempi infatti vigeva nell’ambiente parrocchiale una divisione totale, assoluta, tra i sessi. Noi della cricca Aldo Marcozzi per esempio non avevamo alcuna occasione di familiarizzare con le ragazze della cricca Margherita Sinclair, che vivevano separate da noi al di là dell’alto muro dell’Asilo, sorvegliate dal cipiglio severo di Suor Eucaristica. Soltanto durante le funzioni religiose, in chiesa, potevamo vederle da lontano. Così anche le Dame di San Vincenzo avevano giorni diversi e luoghi diversi per le loro riunioni. E così, non la vidi mai. Né cercai nuove occasioni di vederla, anche perché cominciavo a rendermi conto che un tipo spiantato, pigro, inconcludente sognatore, da due anni fuori corso al biennio del Poli, bravo solo a giocare alle carte, non avrebbe mai avuto niente in comune con una signorina così.

Tuttavia tornai per molti lunedì alle riunioni dei “Vincenzi”: mi sembrava di deludere quelle brave persone, non facendomi più vedere... e poi accadde un episodio che lasciò un segno nella mia vita... questo ve lo devo davvero raccontare.

Le Conferenze del lunedì sera avvenivano sempre con lo stesso programma, proprio come tutto cominciò da quando un certo Federico Ozanàm decise che invece di parole a proposito della Carità Cristiana era meglio trasformare le conferenze-fatte-di-parole in qualcosa di pratico che rendesse la carità qualcosa di tangibile ed efficace.  Dunque si cominciava con una lettura edificante, che il ragioniere traeva da un suo libretto. Poi si faceva la Questua, che consisteva nel far circolare tra i confratelli un sacchetto in cui ciascuno dei presenti infilava la mano chiusa e ne ritraeva la mano vuota dopo aver lasciato cadere il proprio obolo sul fondo del piccolo sacco. Il mio pugno chiuso di studente squattrinato entrava sempre già vuoto  nel famoso sacco ma nessuno certo si aspettava che dopo il mio arrivo tra i confratelli il bilancio finanziario della Conferenza mostrasse un sensibile improvviso incremento.

Uno degli anziani confratelli (di cui non ricordo il nome, tutti lo chiamavano Cavaliere, era un uomo con i capelli bianchi che camminava con un bastone) un lunedì sera mi disse: “Si va sempre in due, a fare le visite, e questa settimana il mio amico è malato. Vuole venire lei, con me?”

Io accettai: mi sembrò un’occasione per fare un’esperienza insolita. Stavo leggendo Axel Munthe, in quei giorni, e mi parve che “andare a visitare i poveri” potesse essere interessante almeno quanto vedere il mondo attraverso gli occhi di un Leichenbegleiter.

Il Cavaliere mi spiegò, strada facendo, come funzionava tutta la faccenda: i soldi nella cassa della Conferenza arrivavano in parte dal ricavato delle Giornate della Carità, una domenica all’anno, quando i confratelli con la loro scatola di cartone sostavano davanti alle chiese, o ai caselli dell’autostrada, o allo stadio... il resto era il ricavato della Questua settimanale (già vi ho spiegato quanto il mio contributo alla questua fosse decisivo). Questi soldi venivano poi spesi visitando le famiglie bisognose della parrocchia: non è che si potesse cambiare la loro difficile situazione, ma il poco è sempre meglio che il niente. La Conferenza aveva stipulato una convenzione con alcune latterie e panetterie del borgo, dalle quali comprava dei Buoni cartacei da distribuire ai poveri, che almeno non mancassero di pane e latte. Questa apparente complicazione burocratica serviva per impedire che, se si distribuissero contanti ai poveri, poi questi soldi fossero spesi chissà come senza controllo.

Infatti la prima visita a cui partecipai con il Cavaliere servì a darmi un’idea più precisa: fummo accolti da una donna scarmigliata in una stanza in completo disordine, ed ella subito disse: “Come vuole che vada? Va di male in peggio. Mio figlio è il chiodo della mia bara! Guardi qui, è sempre ubriaco, non fa nemmeno più finta di andare in giro a cercare un lavoro. Non si muove più di lì, e io morirò di crepacuore”.

Sul letto sfatto giaceva un uomo di mezza età, che si volse un momento a guardarci con sorriso di scherno e poi tornò a voltarsi verso il muro. Il Cavaliere  diede alla povera donna alcuni buoni per il latte e per il pane, mentre le raccomandava di non perdersi di coraggio, queste sono prove che il Signore ci manda per il nostro bene, anche se a noi i suoi disegni sembrano oscuri (non esistevano all’epoca assistenti sociali e altre organizzazioni simili, credo di ricordare – e la donna sembrò accogliere queste raccomandazioni con rispetto). Infine il Cavaliere disse: “e adesso diciamo l’Ave Maria” - lui e la donna recitarono la preghiera ad alta voce, io muovevo solo le labbra e l’uomo, senza voltarsi verso di noi, emise un sonoro rutto.

La seconda visita di quel giorno avvenne a casa di una vedova che fece molte feste al Cavaliere, appena aperta la porta, e fu subito molto gentile anche con me. L’arredamento dell’alloggio lasciava indovinare giorni molto migliori nel passato, c’erano quelle cose di pessimo gusto che piacevano a Guido Gozzano e c’era quell’aria di dignitosa povertà tipica di una dama che tanti anni prima aveva conosciuto una certa agiatezza.

Lei e il Cavaliere sembravano vecchi amici, parlavano affabilmente tra loro del più e del meno mentre ci eravamo seduti su antiche sedie imbottite. Ella volle sapere come mi chiamavo, cosa facevo nella vita, e mi spiegò che le sue presenti difficoltà economiche non le consentivano di accoglierci come avrebbe voluto, e d’altra parte la figlia sposata è una cara affettuosa persona ma proprio non può, con tutta la buona volontà, tenere la vecchia mamma con sé e così bisogna avere pazienza e adattarsi alla realtà e non perdere il buon umore, per quanto possibile. Il Cavaliere le parlava con tono deferente e rispettosamente affettuoso, e le consegnò una busta bianca chiusa, in cui indovinai c’erano i soldi della Conferenza. Evidentemente ad una persona così lui si fidava a consegnare contanti. Lei ringraziò signorilmente per essere sempre ricordata dal Cavaliere e da quei suoi amici gentiluomini della parrocchia, e insistette perché restassimo con lei ancora un po’ a prendere un caffè. Dispose tre tazze in un vassoio sul tavolo, insieme alla zuccheriera e ai cucchiaini, e andò in cucina per mettere la caffettiera sul gas.

Io notai che le tazzine sul vassoio erano decisamente sporche. E’ chiaro che la donna è quasi cieca e non vede ciò che noi vediamo, pensai. Stavo meditando di esclamare subito “Non si disturbi per me, signora, io non prendo mai il caffè” ma il Cavaliere indovinò i miei pensieri, si accostò con la bocca al mio orecchio e disse “Lei non vorrà mica rifiutare il caffè che questa signora offre con tanta gioia? Lei non vorrà davvero essere così scortese?”  “No. Stia tranquillo” gli risposi sotto voce. In quel momento la dama tornò dalla cucina con la caffettiera fumante e mi parve che questo fosse il migliore caffè da me mai bevuto in vita mia.

Intuii anche, in quel momento, che questo sarebbe stato uno dei giorni più importanti nella mia vita. Avevo scoperto la nobiltà d’animo di quel vecchietto canuto col bastone, lo stile signorile di quella vecchietta quasi cieca, e mi sentii d’un tratto orgoglioso di partecipare al loro mondo e felice di avere avuto l’occasione di conoscerlo.

Un mondo di persone che vivono per fare bene qualcosa per qualcuno, e gli sembra una cosa così semplice e naturale che si dimenticano di parlarne. Persone che parlano spesso con Nostro Signore e ben poco di sé con gli altri.

Continuai ad ammirare uomini e donne così, ogni tanto, negli anni successivi, ma non li incontrai in parrocchia e quindi non li ricorderò in queste pagine. Ebbi anche la fortuna di trovare una ragazza dagli occhi azzurri che viveva di fronte a Urfahr sul Danubio, dove si erano fermati  i Russi con le loro mitragliatrici e cavalli di frisia proprio sull’altra riva là di fronte, e lei aveva una grande fiducia in Nostro Signore e nell’efficacia delle preghiere, pregava sempre perché la sua povera patria invasa da soldati ostili e atei tornasse un giorno ad essere libera e lei potesse di nuovo partecipare con i fiori alla processione del Corpus Domini...  io rimasi molto colpito da tutto ciò e le chiesi di pregare anche per me e nell’elegante malinconia del tramonto ella mi disse che naturalmente  avrebbe chiesto al Signore di darmi tanto aiuto e tante gioie, e poi nelle sue lettere successive mostrò di avere fiducia in me, nella mia volontà di studiare e lavorare e svolse il ruolo della fata dai capelli turchini nella storia di Pinocchio ed io infine (era ora!) diventai un giovanotto con la testa sul collo e lei diventò mia moglie e tutti ci avete conosciuti quando venimmo per un breve periodo a vivere in via Exilles 28 e poi ad Avigliana.

Ora se mi volto indietro ricordo la vita come piena di polvere, la polvere sollevata dalle picconate che i nostri professori atei davano in liceo alla storia della Chiesa, gli errori della religione su Galileo eccetera, la polvere dei martelli pneumatici con cui i nostri insegnanti di storia della filosofia usavano Schopenhauer, Nietzsche e Marx per demolire le credenze di noialtri ingenui creduloni della Fede... e il sarcasmo di colleghi che oggigiorno irridono certi atteggiamenti di politici che si dicono cristiani. Sì. Sappiamo tutto. Ma noialtri della cricca, e tanti altri come noi, sappiamo anche che dietro tutta quella polvere abbiamo avuto la fortuna di conoscere persone straordinarie per generosità e nobiltà d’animo, la vera élite del mondo, il sale della terra!